DOI: 10.30443/POI2019-0017

Il lavoro come linguaggio: Bianciardi vs Rossi-Landi

di Angelo Nizza

 

Bisognerebbe scriverlo il vocabolario delle istituzioni del tardo capitalismo che contenga la voce ‘lavoro linguistico’. Da Aristotele a Hannah Arendt, la storia del pensiero ha distinto il campo del lavoro, descrivibile in termini di poiesis, da quello del linguaggio, raffigurabile come praxis, e ha usato i due termini come una coppia di contrari. Per spiegare il significato dell’uno, occorre negare l’altro e viceversa: se ‘lavoro’, allora ‘non-linguaggio’; se ‘linguaggio’, allora ‘non-lavoro’. Le vicende economiche dell’ultimo mezzo secolo confutano duemila e cinquecento anni di storia della filosofia, perché il lavoro non è più vissuto come produzione ma come performance linguistica. La creazione di profitto richiede sempre più la mobilitazione di una forza-lavoro che, nella messa in atto delle proprie capacità psicofisiche, faccia spazio all’uso delle facoltà cognitive e comunicative. Nelle fabbriche robotizzate e nei call center, nell’industria dello spettacolo e in quella dei rider è ormai chiaro che l’agire strumentale non si oppone all’agire comunicativo, bensì lo impiega come uno dei requisiti fondamentali per la sua esecuzione. Il lavoro continua a essere vivo e faticoso, organizzato secondo le norme dell’economia di mercato, spesso precario e malpagato. E però – qui sta la novità – il suo divenire linguistico getta per aria i modelli tradizionalmente impiegati per dare conto della performatività dei sapiens.

Parole-chiave: Lavoro linguistico, Praxis, Poiesis, Semiotica, Letteratura

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5. P.O.I. - Filosofia e lavoro. Ieri e oggi- Nizza