DOI: 10.30443/POI2020-0019

Recensione a Goffredo Fofi, L’oppio del popolo, Elèuthera, Milano 2019, 166 pp.

di Giovanni Peduto

 

Ogni lettura è un incontro e lo è di più, nella fattispecie, se colui che scrive si palesa tra le righe. Come in tutti gli incontri, tuttavia, anche nella lettura possono esserci fraintendimenti, misconoscimenti: si può prendere qualcuno per qualcun altro. Si può evitare l’incontro con l’alterità di chi scrive in tanti modi, ma principalmente, camuffandola, riducendola all’orbita del proprio universo mentale, adattandola come un rattoppo alla veste che più fa comodo. Il pericolo di fraintendere il recente libro di Goffredo Fofi, L’oppio del popolo, per altro da ciò che vuole essere è ben prevedibile, per ragioni che sono discusse nel libro stesso. Il primo compito di un lettore attento è, dunque, quello di proteggere questo testo dall’elementare gesto di psicologia filosofica che, volendo assumere una posizione neutrale e scientifica lo affronta dissezionandolo, vagliando la cogenza o meno degli argomenti e dei dati presentati, come se operasse con dei bisturi sul corpo di un cadavere. Ma il testo – e, forse, è questo il suo senso più intimo – vuole parlare ai vivi, a chi è chiamato ad assumersi delle responsabilità per la propria vita e per quella degli altri intorno a lui, e non porsi nell’empireo della teoria ed alimentarne quello che chiama sprezzantemente – il mercato. La cornice del libro è, dunque, etica e assiologica. Fofi interroga il nostro tempo e lo fa in quanto Fofi, non in quanto teoreta. Esso appartiene più al genere della testimonianza, la quale, però, come accade nelle Confessioni di Agostino, non si esime dal porsi fondamentali questioni generali, dal riflettere sul proprio tempo, tenendo ferme le evidenze fornitegli dalla sua coscienza morale.

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